Il mistero dei forti vetrificati

Tipologia: 
Archeologia
15 aprile 2018
Ancora oggi non è perfettamente chiaro il metodo utilizzato per realizzare simili strutture. In particolare, come abbiano fatto i costruttori a esporre le pietre alle alte temperature necessarie per provocare la parziale o totale fusione dell’opera muraria: le temperature necessarie per indurre la vetrificazione superano infatti i 1000 gradi centigradi
Ancora oggi la vetrificazione resta un mistero
Ancora oggi la vetrificazione resta un mistero

La vetrificazione dei forti di pietra è uno dei grandi misteri dell’archeologia. Ancora oggi non è perfettamente chiaro il metodo utilizzato per realizzare simili strutture. In particolare, come abbiano fatto i costruttori a esporre le pietre alle alte temperature necessarie per provocare la parziale o totale fusione dell’opera muraria, ottenendo per raffreddamento una sorta di vetro colato e solidificato. I forti vetrificati si trovano in diversi luoghi d’Europa, in Medio Oriente e in Sud America. La preistoria del Vecchio continente è ricca di testimonianze di questa natura. In territorio scozzese sorgono fortificazioni come Spynie Castle nell’Invernesshire e Top-o-Noth nella contea di Aberdeen, oppure Craig Phoedrick e Ord Hill of Kissock, edificati su due colline all’estremità del golfo di Moray, nei pressi della città di Inverness. Sono vetrificati anche i ruderi della torre dell’isola di Toriniz, oggi Tory, situata nel Donegal, sulla punta settentrionale dell’Irlanda. Una dozzina di forti si trova in Francia, nella zona del fiume Creuse, come a Chateauvieux e a Ribandelle, ma anche nella regione della Vienne, oppure in Bretagna, dove per esempio sorgono le famose mura di Péran nel comune di Plédran, che alcuni ritrovamenti farebbero risalire ad almeno tremila anni fa. Si tratta in genere di recinti di forma ellittica, innalzati sulle alture con l’utilizzo di pietre molto grandi. Le mura, nella parte inferiore, a volte su un lato, oppure su entrambi, in molti casi solo nella parte interna, sono vetrificate.


Residui di muro vetrificato in Francia a Sainte-Suzanne, nella Mayenne

Gli studi eseguiti su questi materiali hanno rilevato che i massi utilizzati appartengono a differenti tipi di roccia (metamorfica, ignea o sedimentaria), quindi che il processo di vetrificazione può operare su un ampio ventaglio di materiali. Il mistero sta proprio nella difficoltà di creare le giuste condizioni per innescare il processo: le temperature necessarie per indurre la vetrificazione superano infatti i 1000 gradi centigradi. Granito, basalto, gneiss o altri silicati iniziano a cristallizzare a temperature di circa 650 gradi, fondono e vetrificano se sottoposti a temperature comprese tra i 1050 e i 1235 gradi, la biotite (fillosilicato ferrifero appartenente al gruppo delle miche) fonde a 850 gradi, calcare e dolomia vanno incontro a calcinazione se esposti a temperature di 800 gradi. Per poter raggiungere simili temperature è verosimilmente necessario un forno, ma molte delle pietre usate per l’edificazione hanno dimensioni talmente grandi da pretendere l’uso di forni veramente enormi. Talvolta gli archeologi hanno attribuito la vetrificazione agli effetti di un grande incendio, come nel caso delle pietre presenti tra le rovine di Hattusa in Turchia, oppure ad agenti atmosferici e calamità naturali, come nel caso della Ziqqurat di Borsippa in Iraq, dove si chiamano in causa i fulmini. Tuttavia, nella maggioranza dei casi la vetrificazione è il frutto di un progetto deliberato, si vedano per esempio le opere megalitiche realizzate in Bolivia e Perù. Oltre al “come” rappresenta un problema il “perché”: secondo l’ipotesi di alcuni ricercatori, l’intento di quegli antichi costruttori era rafforzare la pietra, altri invece ritengono che il calore venisse utilizzato per indebolire la pietra e lavorarla meglio.


Il forte di Tap o’ Noth in Scozia

Gli studi scientifici sulla vetrificazione risalgono addirittura alla fine del ‘700, il geologo britannico John Williams fu il primo a descrivere tale processo chimico-fisico (l’espressione “forti vetrificati” è sua). Il più noto esperimento sui forti vetrificati è stato effettuato nel 1934 e ripetuto tre anni dopo da Wallace Thorneycroft e Vere Gordon Childe, che accesero un fuoco contro un muro di pietra appositamente innalzato per il test: il basalto divenne incandescente, probabilmente raggiungendo 800-1200 gradi centigradi. Sarebbero state trovate tracce di vetrificazione, ma l’esperimento non fu risolutivo, perché il muro sperimentale alto poco meno di due metri crollò tre ore dopo, come descritto in “The Proceedings of the Society of Antiquaries of Scotland”. Ecco allora che per molti la risposta all’enigma non può essere cercata in un semplice muro “arrostito” con un braciere posto in aderenza alle pietre. In ambito di architettura megalitica andina, per esempio, è stato rilevato che le rocce vetrificate si caratterizzano per un insolito aspetto lucido in grado di riflettere la luce come uno specchio, una sorta di patina che si dice non possa essere ricavata per mezzo della normale lucidatura della pietra (come nel Tempio della Luna, a Cuzco, in Perù), scolorimento evidente o cambiamento di colore della roccia. Secondo alcuni annunci si riscontrerebbero perfino anomalie magnetiche della pietra rilevabili con una bussola (si veda il Trono dell’Inca di fronte alla fortezza di Sachsaywaman). Ecco allora che per spiegare la vetrificazione alcune ipotesi hanno fatto appello all’elettromagnetismo e alle teorie eterodosse di Edward Leedskalnin, costruttore del Coral Castle in Florida, che l’autore espose nel libro “Magnetic Current” del 1945. Tuttavia, molte delle ricerche in materia sono state condotte da studiosi revisionisti e detective del mistero, spesso animati da spirito fantarcheologico, pertanto le conclusioni raggiunte non possono essere validate dalla scienza.

Esempi di vetrificazione andina a Cuzco e Sacsayhuamán

Giorgio Giordano

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